domenica 15 aprile 2012

L’Europa taglia la spesa, noi aumentiamo le tasse

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Dal 2010 abbiamo subito manovre per 232 miliardi, fatte per il 72% di nuovi balzelli. Gli altri Paesi sono intervenuti invece sui costi della Pa. Anche la Grecia ci dà lezioni.

Se ci fosse ancora bisogno di capire e di dimostrare perché l’economia dell’Italia da anni non cresce e per anni non crescerà con le decisioni finora prese dal governo tecnico del presidente Mario Monti, basta dare uno sguardo alle torte del grafico pubblicato sopra. È tratto da Les Echos, il principale quotidiano economico francese ben lontano dalle posizioni di affiancamento degli investitori e speculatori del mondo anglosassone come il Financial Times. Con il titolo «Les plans d’economie en Europe» e il sottotitolo «Cumule des plans decides depuis 2010 et objectif», il grafico già nella dimensione della torta indica come il problema italiano sia macroscopicamente più grave: le manovre dal 2010 al 2012 hanno raggiunto l’impressionante entità di 232 miliardi di euro, ma l’aspetto più grave, nettamente evidente in base al diverso colore in cui è divisa la torta, è che ben il 72% dei 232 miliardi sono tasse in più prelevate dalle tasche e dalle casse dei cittadini e delle imprese italiane; soltanto il 28% proviene da riduzione della spesa pubblica.

Se poi si vanno ad esaminare le torte degli altri Paesi in difficoltà, le cause della non crescita dell’Italia appaiono ancora più evidenti, come evidente appare l’errore di perseverare da parte del governo in questa direzione: la Gran Bretagna che pure se la passa male, molto male, dal 2010 ha effettuato manovre pari a 130 miliardi,quindi più di 100 in meno dell’Italia, e
soltanto il 20% viene dal rialzo delle tasse; la Spagna, sempre dalla stessa data, ha compiuto o varato manovre pari a 80 miliardi di euro, provenienti solo per il 33% da un inasprimento fiscale; e perfino la Grecia, già quasi dichiarata fallita, ha una percentuale di prelievo fiscale aggiuntivo sulla manovra che è quasi la metà di quello italiano.
Idem per gli altri due Paesi periferici, cioè Irlanda e Portogallo.
Tutti i Paesi europei, dentro e fuori dall’euro, più o meno vicini al fallimento, hanno scelto la strada di tagliare le spese pubbliche nettamente di più che aumentare le tasse, ben consapevoli che più soldi si prelevano a cittadini e imprese e meno ce ne saranno per i consumi egli investimenti, senza i quali l’economia non può svilupparsi e il Paese entra in una spirale perversa dalla quale è difficilissimo uscire. Ma sono anche gli obiettivi delle varie manovre che chiariscono ancora di più come gli ultimi governi e in maniera ancora più marcata quello in carica abbiano visto una sola strada per difendersi dalla speculazione e, soprattutto, per soddisfare la brama di sangue della cancelliera Angela Merkel e dei suoi brutali banchieri centrali. L’Italia è l’unico Paese che si è posto e si è assunto il pesantissimo obiettivo del pareggio del bilancio nel 2013. La Gran Bretagna fa parte dell’Unione europea ma è (saggiamente) fuori dall’euro e si è guardata bene dal firmare il Fiscal compact imposto a 25 Paesi su 27 dalla Germania per una riduzione del debito eccedente il 60% del prodotto interno lordo di 1/20 all’anno; il suo obiettivo è di ridurre il deficit del bilancio pubblico al 2% del Pil ma in un arco di tempo superiore di ben due anni rispetto al 2013 dell’Italia. E anche la Spagna, che ha firmato il Fiscal compact ed è nell’euro, ha assunto l’impegno al 2013 ma per un deficit pubblico pari al 3% contro il pareggio italiano. Per non parlare degli obiettivi temporali e di deficit degli altri Stati periferici.

Che l’Italia avesse bisogno di un rigore superiore a tutti gli altri Paesi dell’Unione è fuori discussione. Certo, professor Monti, la situazione che Lei si è trovato a governare era drammatica, ma il rigore lo si dimostra non solo spremendo gli italiani e le imprese italiane che pagano regolarmente le tasse. Se è semplice aumentare l’Iva, se è doloroso ma semplice riformare e allungare le pensioni, se è semplice aumentare le accise sulla benzina, se è semplice rimettere la vecchia Ici anche sulla prima casa portando di fatto, con l’Imu, il prelievo su tutti gli immobili a circa l’1% del loro valore all’anno; se è semplice mettere nuove e più dure tasse, altrettanto semplice sarebbe stato -e sarebbe- tagliare drasticamente le spese pubbliche. Invece il suo ministro specialista, il professor Piero Giarda, che da oltre 15 anni si occupa del problema, sta ancora studiando la materia, pomposamente chiamata spending review. E intanto il Paese langue, si avvita su sé stesso; la recessione è sempre più cruda; molti capitali sono scappati all’estero, per un valore di 70 miliardi quelli che hanno rispettato le regole e sicuramente altrettanti clandestinamente.
La fiducia degli italiani e soprattutto quella degli imprenditori sta scendendo a zero. Molte aziende chiudono o si apprestano a farlo. Alcuni piccoli imprenditori si sono suicidati o dati fuoco. Eppure, Lei sa bene che il fattore psicologico ha un peso importantissimo sull’andamento dell’economia. Anche i suoi colleghi Francesco Giavazzi e Alberto Alesina, sul Corriere della sera di mercoledì 11, Le hanno detto chiaro: «Ora date un taglio alle troppe spese». Possibile che né da Lei né dal ministro Giarda sia arrivata una parola di imminente azione per i tagli?
Era facile prevedere che al primo stormir di fronde lo spread sarebbe rimbalzato e la speculazione avrebbe ripreso fiato. Anche perché era chiaro a tutti che le buone performance sul piano della credibilità e del rigore sarebbero servite non a molto, senza l’intelligente e coraggioso intervento del presidente della Bce, Mario Draghi, di concedere centinaia di miliardi di liquidità alle banche dei vari Paesi europei e per oltre il 27% di questa liquidità alle banche italiane, che sono tornate a comprare i titoli di Stato nazionali. Nei giorni scorsi, appunto come si era previsto, è ricominciata la danza della speculazione e naturalmente il Paese più esposto, con anche la sua borsa, è stata l’Italia. La causa vera è una sola: la convinzione dei mercati che l’Italia, con le scelte di spingere solo sull’aumento delle tasse, non si svilupperà nella maniera sufficiente a tagliare il debito, che resta il cancro del Paese e il vero differenziale rispetto a tutti gli altri maggiori Paesi dell’Europa. A giugno per l’effetto combinato della riduzione del Pil (stimato dal Fondo monetario al 2,2% su base annua), il maggior costo degli interessi per il servizio del debito e i mancati tagli della spesa pubblica, il rapporto Pil/stock del debito salirà dal 120 al 125% e quando il dato sarà acclarato la speculazione potrà essere ancora più pesante dei giorni scorsi.
Inutile girarci intorno: il segretario del maggior partito che Le dà appoggio, il giovane Angelino Alfano, faccia finta di essere a capo di una famiglia che possiede un discreto numero di case ma ha un debito insopportabile. Cosa farebbe? Venderebbe una buona parte delle case per pagare il debito e quindi ridurre il peso degli interessi che mettevano in crisi la famiglia.
Il professor Andrea Monorchio, per la sua esperienza di ragioniere generale dello Stato e quindi primo conoscitore del bilancio, ha fornito cifre e soluzioni tecniche per ridurre in tre anni il debito di almeno 300 miliardi vendendo il patrimonio (una parte di patrimonio) dello Stato e degli enti locali agli italiani. Le vie per farlo sono numerose: c’è la via fiscale di esentare da imposte i guadagni di rendimento e di capitale delle quote del fondo o della spa dove trasferire i beni pubblici, acquistate da cittadini italiani; c’è la via di garantire quegli investimenti con le riserve di oro della Banca d’Italia eccedenti l’obbligo di deposito presso la Bce... Ci vuole la volontà di farlo, mentre il paese è sempre più convinto che anche il suo governo, Signor Presidente, non voglia andare a toccare i privilegi e il potere che ruota attorno a quel patrimonio, così com’è convinto (se ne convinca) che anche il continuo rinvio dei tagli della spesa pubblica abbia le stesse motivazioni.
E non trascuri che questi convincimenti sono anche il frutto della constatazione che sulla riforma del lavoro alla fine il governo abbia ceduto al compromesso imposto dal Pd. Nel gioco delle giustificazioni dei governi, non Le sarà sfuggito che il governatore della Banca di Spagna ha citato proprio questo aspetto per ribaltare sull’Italia la responsabilità della ripresa della speculazione. Tuttavia si sa questo è una sorta di gioco delle parti, perché la malattia vera è un’altra. E senza tagliare subito e drasticamente il debito l’Italia sarà sempre il ventre molle dell’Europa.
La spiegazione che assieme al taglio delle spese (subito) va subito tagliato il debito, Lei la può trovare in un lucido articolo di Federico Fubini sul Corriere di mercoledì 11: «Perché in 15 giorni il rischio Italia è salito di 130 punti».
Perché senza il taglio netto del debito gli investitori non credono che l’Italia ce la possa fare. Perché dei 1.019 miliardi di euro che la Bce ha concesso alle banche per tre anni all’1%, ben 260 miliardi sono stati ritirati dalle banche italiane, che hanno potuto dare in garanzia anche i 40 miliardi di obbligazioni bancarie che lo Stato italiano ha garantito, in un circuito perverso, visto che larga parte dei miliardi ricevuti, gli istituti di credito italiani li hanno usati per comprare titoli di Stato. È stato verificato che le banche italiane hanno aumentato la loro esposizioni in titoli italiani di ben 54 miliardi rispetto a prima della crisi. E le prime cinque banche italiane hanno perso nel 2011 ben 28 miliardi di euro per il crollo di valore dei titoli di Stato che avevano in portafoglio. Sarà sicuramente utile che il ministro Passera chieda alle banche, come sta facendo, di scontare i crediti che gli italiani hanno verso lo stato per un importo di 80 miliardi.
Ma anche questa manovra non sarà che una boccata di ossigeno, come lo è stata la coraggiosa decisione di Draghi di immettere, contro il parere dei tedeschi, mille miliardi di liquidità nel sistema europeo. Ma perché l’Italia possa uscire dalla crisi, perché il meccanismo della crescita riparta, occorre che le banche tornino a fare il mestiere di prestare il denaro alleaziende invece di doverlo usare per sostenere il debito pubblico.

Signor Presidente Monti, se è vero che servivano più tasse per calmare gli assatanati tedeschi e il mercato,  è vero che occorre tagliare la spesa pubblica (e tra questa i privilegi delle caste politiche e non), subito, e i tagli da fare sono molti,  le banche vanno stimolate a tornare a fare il loro mestiere altrimenti  il cancro del Paese, il debito pubblico, sarà sempre più insostenibile più si faranno manovre di prelievo invece che di sviluppo.

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